sileno_baroccoAutore: Marie-France Tristan
Titolo: Sileno barocco
Sottotitolo: Il  "Cavalier Marino" fra sacro e profano
Prefazione di Yves Hersant
Traduzione di Luana Salvarani
Descrizione: Volume in formato 8° (cm 24 x 17); 464 pagine
Luogo, Editore, data: Lavis (TN), La Finestra, novembre 2008
Collana: Opere di Giambattista Marino
ISBN: 9788895925004
Disponibilità: NO

 


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Questo volume, uscito in Francia nel 2002 (ed. Champion) con il titolo La scène de l'écriture. Essai sur la poésie philosophique du Cavalier Marin, è qui proposto in una nuova versione curata dall'Autrice e in traduzione italiana. Marie-France Tristan propone una lettura totalmente innovativa dell'opera del Marino, che si muove non più sul piano dello stile, bensì su quello conoscitivo. Al poeta bizzarro e irregolare, consegnatoci da una tradizione critica che di rado si è davvero confrontata coi testi nella loro interezza, si sostituisce un poeta-filosofo in grado di elaborare un sistema complesso, che intreccia paganesimo e cristianesimo su basi gnostiche ed ermetiche. L'analisi è fitta di riferimenti all'Adone e alle Dicerie Sacre, e fornisce implicitamente una risposta al mistero dell'eccezionale fortuna del Marino, spiegando anche la risolutezza con cui venne condannato prima dall'Indice e poi dalla storia letteraria italiana.

Prefazione:
II meraviglioso e "illeggibile" Adone, che grazie a Marie-France Tristan ci meraviglieremo comunque di poter leggere, è stato messo tre volte all'Indice. Prima censura (la più ufficiale e la meno grave): nel 1627, due anni dopo la morte dell'autore, l'Inquisizione lancia le sue folgori su quest'opera giudicata troppo licenziosa e in gran sospetto di libertinismo non meno che di libertinaggio. Invano Giambattista Marino, vita natural durante, ha sperato in una lettura 'di senso più alto' delle sue poesie d'amore e delle sue prose: per la Chiesa l'allegorismo resta riserva di caccia. E l'impudente allegorista ha davvero troppo cattiva fama: avventuriero della mente, si è voluto "più matto" del Tasso; avventuriero sic et simpliciter, abile cortigiano ma cattivo soggetto, egli ha commesso delle brutture e conosciuta la prigione.

Seconda censura, la meglio nota: nel nome della ragione, stavolta, e d'una ferma retorica, il nostro Grand Siècle mette Marino alla gogna. Parecchi motivi per questo rifiuto. Linguistici e politici, per quelli che contrappongono la Francia e i francesi ai vicini meridionali guastati dal concettismo; morali e religiosi per quelli che ritengono la metafora un travestimento diabolico che ci nasconde la verità; poetici e retorici per chi teorizza il "consenso" e difende la "convenienza"; scientifici e filosofici per i successori di Cartesio che reclamano una lingua logica, non sgualcita dall"entusiasmo". Nella stessa nazione che l'aveva festeggiato ai tempi di Luigi XIII, Marino passa per l'incarnazione del cattivo gusto; affettazione, galimatias sono le minime colpe che gli si imputano. "In quale enormità di errori", scrive ad esempio René Rapin nel 1674, non sono caduti "Petrarca nel suo poema l'Africa, l'Ariosto nell'Orlando furioso, il Cavalier Marino nell'Adone, e tutti gli altri Italiani che non hanno riconosciuto le regole della Poetica d'Aristotile, perché hanno seguito non altra guida che il loro genio e il loro capriccio!". Ma il "Cavaliere" non ha soltanto corrotto la poesia, dopo aver corrotto i costumi: i suoi artifizi metaforici intralciano ogni ricerca della verità. Come ammirare ciò che non ha ombra di verità? Questo è il problema, ormai, ostinatamente ripreso da scrittori così diversi come Nicole, il padre Bouhours, Malebranche o Boileau. All'asianesimo meridionale, ai giochi di parole mariniani e alla sofistica che li ispira si opporranno volta volta una poetica alleante il cuore alla ragione, un'arte di piacere che privilegia lo "stile galante", la scienza nuova che esige un linguaggio "chiaro". Certo, delle sfaldature profonde attraversano il mondo classico e infinite sfumature lo colorano; ma nell'atto stesso in cui divergono giansenisti e gesuiti, antichi e moderni, retori e filosofi (o anche retori e retori, traversando una crisi la retorica), un comune rifiuto del metaforismo e degli eccessi della acutezza dona loro un sembiante di coesione. Il "parlar proprio" di Pascal, benché inteso in maniere diverse, è un motivo ideale di comunanza che esclude il marinismo.

La terza censura, ben più subdola, è quella che denuncia con talento l'autore del libro che stiamo per leggere. Nel ventesimo secolo, proprio mentre perspicaci analisti riabilitavano l'opera del Cavaliere, si è misconosciuto il suo modernismo e occultata in larghissima misura la sua dimensione filosofica. Come se le meditazioni del poeta sul linguaggio e sul mondo non fossero che vani arabeschi, sprovvisti di profondità e di contenuto noetico; come se Marino non si inscrivesse, alla pari del Tasso o Du Bartas, in una tradizione speculativa - e non meritasse, sotto qualche aspetto, d'essere avvicinato a un Leibniz. Più precisamente: come se nei concetti dell'Italiano non potessero esservi dei 'concetti' (come vuole la lingua francese, ahimè, dove 'concetto' non designa più che una operazione astratta dell'intelletto); come se in lui la meraviglia, vero fine della poesia, non pertinesse alla filosofia almeno altrettanto che alla retorica (come il thaumaston di Aristotele ed il mirabile di Cicerone); come se l'ingegno mariniano, questa forza non razionale che partecipa del divino, non avesse ricevuto il potere di scoprire le cose nascoste.

Ludico e paralogico, il concetto è una argomentazione folgorante, che stimola il desiderio di conoscenza, di cui un ammiratore del Cavaliere - l'autore del Cannocchiale aristotelico, Emanuele Tesauro - elaborerà la teoria. La meraviglia che ne risulta, sorta di stupefazione ammirativa davanti a degli strani accostamenti, è la forza barocca per eccellenza che strappa l'uomo al quotidiano e lo riporta alle origini. E l'ingegno che li produce (questo talento naturale che varia a seconda degli individui, ben distinto di conseguenza da una ragione a tutti comune) è la potenza d'invenzione che governa la "scena della scrittura" così come interpreta il cosmo. Prendendo sul serio queste tre nozioni, illuminando con esse la lettura incrociata dell'Adone e delle Dicerie Sacre, rendendo alle metafore tutto il loro potere cognitivo come auspicava Ernesto Grassi, Marie-France Tristan non ha soltanto condotto a buon fine un grande lavoro d'erudizione: ha ridato la vita a delle pagine morte o che si aveva avuto troppo fretta di dire tali.

Yves Hersant

 


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