per_massimo_troisi_pCuratori: Salvatore Aulicino, Salvatore Iorio
Titolo: Per Massimo Troisi
Sottotitolo: Saggi, ricordi, riletture
Descrizione: Edizione in formato 8° (cm 24 x 16,5); 174 pagine.
Luogo, Editore, data: Atripalda (AV), Mephite, aprile 2010
Collana: Quaderni di Cinemasud
ISBN: 97888 63200744
Prezzo: Euro 12,00
Disponibilità: In commercio 

 


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Quando si pensa che nel 2010 Massimo Troisi avrebbe compiuto 57 anni, viene automatico domandarsi (anche se il suo vecchio compagno di comicità Lello Arena dissuade dal farlo): «Che cosa farebbe oggi se fosse ancora vivo?».
Il gioco è intrigante e inutile come tutti i "se fosse": ognuno potrebbe rispondere a suo modo, legittimamente, e prima o poi qualcuno fonderebbe (se non l'ha già fatto) un gruppo su Facebook.
Io mi diverto a pensare che Massimo se ne starebbe zitto, come lo zi' Nicola delle Voci di dentro di Eduardo.

C'è troppo chiasso oggi, e già ai suoi tempi lui aveva scelto la strada di una napoletanità e di una italianità non becere, non convenzionali, non rumorose.
Anche Fellini chiude il suo ultimo film, La voce della luna, cinque anni prima della morte di Troisi, con un invito al silenzio: «Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire».

Ora è vero che a prima vista, e a primo udito, i film di Troisi sono tutti molto parlati, forse troppo parlati, con i relativi scompensi di stile cinematografico. Ma il suo modo di esprimersi, fatto di frammenti, ripetizioni, balbettii, pause, semitoni, è più vicino al regno del silenzio che a quello della parola: «il rovescio fisico e morale della voce dei camorristi» scriveva, da grande scrittore, Erri De Luca.

Certamente quei labirinti lessicali, quel trascinarsi di voce e concetti, rallentano il ritmo narrativo, limitano le possibilità e libertà del montaggio. I film con Troisi, perfino quelli diretti da registi di professione come Scola e Radford, sono lenti, zoppicanti, poco cinematografici (mentre non è mai lento o zoppicante il suo teatro, poiché il teatro ha per natura un ritmo proprio, interiore, non realistico).
Tuttavia questa lentezza è a suo modo una silenziosità, la ricerca di uno stile diverso nel cinema come nella vita, e almeno in parte fu una scelta, non un errore. Troisi dava l'impressione di improvvisare, ma in realtà scriveva i dialoghi dei suoi film con grande scrupolo, arrivando a soffermarsi per ore e ore su un avverbio o un aggettivo.
Ecco allora che quelle parole e quelle frasi contorte sono una sorta di grammelot, comprensibile anche da chi, lontano da Napoli, non riesce a coglierne i singoli termini. E il grammelot, come insegna Dario Fo, può essere più ideologico delle parole. Quasi una musica, e la musica è anch'essa una forma di silenzio, una ribellione contro il chiasso.

In questo libro, che mette insieme omaggi amicali non smaccati e pagine critiche non scontate, si parla molto della lingua e del linguaggio di Troisi, prendendo in considerazione anche i suoi rari scritti e le sue numerose interviste televisive. Fu uno dei pochissimi, Troisi, a esprimersi in dialetto, o comunque in quella sua lingua privata, solipsistica, perfino nelle interviste.

E la sua segreta ossessione per la lingua spinge Roberto De Simone a partecipare al gioco del "se fosse" ipotizzando che l'attore-regista sarebbe diventato scrittore se fosse vissuto oggi (ma oggi quasi tutti fanno gli scrittori, a parte gli scrittori: ci sarebbe piuttosto bisogno di lettori, e forse, appartato nel suo silenzio, è proprio lettore che Troisi sarebbe piuttosto diventato).

Come un altro grande meridionale, Vincenzo Bellini, Massimo Troisi se n'è andato prima di raggiungere la maturità dell'arte. Ora c'è chi dice che Bellini, se fosse vissuto quanto Verdi, sarebbe diventato più grande di Verdi.

Facile affermare, in parallelo, che Troisi, se fosse vissuto quanto Totò, sarebbe diventato più grande di Totò. Il bello di questo gioco è che nessuno ci può smentire; ma in ogni caso "accontentarsi" della Sonnambula e della Norma, così come di Ricomincio da tre e di Pensavo fosse amore... invece era un calesse, non è accontentarsi di poco.

Inoltre anche andarsene al momento giusto è segno di grande umanità, di coerenza estrema. Mi permetto di ricordare che Troisi è morto nel 1994, l'anno della "discesa in campo" di Berlusconi. Se n'è andato, beato lui, prima di vedere l'Italia trasformata in repubblica televisiva e pubblicitaria dove il chiasso, l'ignoranza e la stupidità regnano sovrani e i volumi sono sempre troppo alti. Come diceva David Patrick Kelly a Bruce Willis in un film americano di quegli anni, Ancora vivo: «la morte è l'unica cura contro la stupidità».
Enrico Giacovelli

 


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